
“Libertà va cercando, ch’è si cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.”
Purgatorio, Canto I, Dante Alighieri
Hikikomori, un fenomeno giapponese che ha attirato l’attenzione per la prima volta durante gli anni ’90, è una grave forma di esclusione sociale che comporta un ritiro completo dalla società per sei o più mesi. Attualmente è considerato come un fenomeno socioculturale di salute mentale, piuttosto che una distinta malattia mentale. Sebbene il fenomeno sia iniziato in Giappone, si sta rapidamente verificando in altri paesi di tutto il mondo. Il termine Hikikomori (derivato dal verbo hiki “ritirarsi” e komori “essere dentro”) è stato coniato dallo psichiatra giapponese Tamaki Saito ed è ora usato in tutto il mondo per descrivere chiunque soddisfi i criteri.
Il fenomeno è più comune nei giovani, in particolare nei giovani uomini, e la ricerca mostra che esperienze traumatiche come vergogna e/o sconfitta sociale sono comunemente riportate come fattori scatenanti in tutte le culture. Questi giovani adulti non sono in grado di lavorare, andare a scuola o uscire di casa per mesi o anni. Inoltre non creano né mantengono alcun rapporto personale al di fuori delle loro famiglie. Spesso hanno un senso di apatia che rasenta il nichilismo. Potrebbero essere disillusi dalla società in generale e avere una mancanza di motivazione ad interagire con qualcuno. Potrebbero anche avere difficoltà ad esprimere le proprie emozioni.
Gli hikikomori tendono a utilizzare Internet in modo profuso, preferiscono comunicare online e spesso trascorrono gran parte del loro tempo nel mondo digitale. L’emergere di smartphone, servizi di consegna di cibo e tutti i servizi che riducono l’interazione sociale hanno un effetto aggravante sulla questione. In sostanza oggi puoi vivere tutta la tua vita dal tuo letto e, indovinate un po’, questo è esattamente ciò che stanno facendo molti hikikomori.
Ora chiudete gli occhi per un minuto e ripensate agli ultimi dodici mesi della vostra vita… il fenomeno socioculturale di cui sopra suona familiare? Dovrebbe: siamo diventati tutti Hikikomori o siamo su tale pericolosa strada! Gli arresti domiciliari, obbligatori ed anticostituzionali, ci hanno imposto un tale stile di vita. Ci stiamo isolando nelle nostre case, ritirandoci dalle interazioni sociali, impossibilitati a lavorare, andare a scuola, radunarci, protestare, festeggiare, viaggiare, vivere l’arte, ridere insieme, piangere insieme, abbracciarci, fare sesso, incontrare persone nuove, condividere nuove idee… in una parola: vivere!
Inseriti in una realtà virtuale dettata dalla tecnologia, abbiamo “riunioni” su zoom, acquistiamo online, visitiamo musei virtuali, condividiamo idee su Facebook e rilasciamo le nostre frustrazioni sessuali su Pornhub. Nel frattempo la società intorno a noi si sta sgretolando in una catastrofe economica di proporzioni bibliche (e questo, in termini molto pratici, significa estrema povertà e morte) mentre un accaparramento delle risorse di stampo feudale da parte di multinazionali ed interessi finanziari ci sta rubando il futuro. E tutto questo per “combattere” un virus che, secondo l’OMS, ha un tasso di letalità (la possibilità di morire se prendi il virus) inferiore all’1%. E cioè un tasso di sopravvivenza del 99%, gente! Dobbiamo essere la generazione più isterica della storia umana.
ZÔÊ O BIOS
Gli antichi greci, persone molto più sagge di noi, non avevano un solo termine per esprimere ciò che comunemente chiamiamo vita. Usavano due parole: zôê, che esprimeva il semplice fatto di vivere, comune a tutti gli esseri viventi (animali, uomini o dei), e bios, che indicava la forma od il modo di vivere specifico di un individuo o di un gruppo. Una distinzione così elegante dovrebbe essere una fonte primordiale di conversazione in una società colta che affronta questioni di vita o morte. Tale distinzione ci costringe a porre la domanda più antica del mondo: cos’è la vita? O più precisamente cosa costituisce la vita umana? La vita umana non è altro che un cuore che batte ed un polmone che respira? Oppure la vita umana è definita dalla qualità e dalla quantità di esperienze che incontra?
Ovviamente è superfluo dire che non esiste bios senza zôê. Senza un cuore che batte ed un polmone che respira, nessuna esperienza può essere incontrata in questa realtà terrena. Ma questo è un dato di fatto superficiale e sempliciotto. La vera domanda interessante è: qual è lo scopo di un cuore che batte se tale cuore è privato di emozioni, ricordi ed esperienze che rendono il suo battito uno sforzo utile? L’atto di respirare è sufficiente per considerare l’esistenza umana un’esperienza degna di essere vissuta?
Uno dei mantra della quotidiana propaganda politica è che i lockdown, il distanziamento sociale, le maschere e tutte le altre misure assassine di libertà messe in atto da “esperti” non eletti, hanno lo scopo di salvare vite umane. In realtà, se questi sistemi hanno una qualche utilità (ed è un grande se) questa è di salvare la zôê, il semplice fatto di vivere. Ma così facendo uccidono la forma più importante di esistenza: il bios, la forma delle nostre vite. Cadiamo quindi in una strana contraddizione in cui politici e scienziati stanno uccidendo l’esperienza significativa e profonda dell’essere per salvare la nuda vita.
Un esempio pratico, anche se estremo, della distinzione tra zôê e bios è la condizione del coma irreversibile. In questi casi la nuda vita di un essere umano è mantenuta accesa tramite mezzi artificiali: il suo cuore batte, i suoi polmoni respirano e dal punto di vista medico il paziente è vivo. Ma che dire dell’esperienza umana? Senza entrare nell’intricata discussione sui sogni e sulla funzione cerebrale in uno stato comatoso, possiamo chiaramente valutare che gli esseri umani in tale stato non sono in grado di coltivare nuove esperienze né di nutrire emozioni. Il loro bios è de facto inesistente. Nella letteratura di fantascienza tale figura è rappresentata al meglio dallo zombi, una creatura che vive eppure non completamente umana. Nei nostri tentativi di combattere il virus ci stiamo “zombificando” e viviamo come se fossimo già morti.
Ovviamente la confutazione più comune a tale pensiero sarà: “ma questa è un’emergenza! Queste misure sono provvisorie! ”. Tale proposito è, a mio parere, imperfetto su molti livelli. Prima di tutto con un tasso di sopravvivenza del 99% possiamo davvero affermare che questa è un’emergenza? In secondo luogo, se questa è un’emergenza, quanto durerà? Molti scienziati sembrano credere che il virus sia destinato a restare e che la crisi attuale continuerà negli anni a venire. Per quanto tempo dovremmo sopravvivere piuttosto che vivere in nome dell’1% di possibilità di morire? In terzo luogo, siamo sicuri che queste misure siano provvisorie? Siamo sicuri che ciò che stiamo vivendo non sia il distanziamento sociale come modello politico? Un modello gestito da una matrice digitale che sostituisce l’interazione umana, che, per definizione, sarà d’ora in poi considerata fondamentalmente sospetta e politicamente “contagiosa”?
Abbiamo già sperimentato un tale cambiamento di paradigma dopo l’11 settembre. All’epoca la propaganda politica aveva un approccio molto simile nel convincerci che eravamo tutti in imminente pericolo e che per salvare le nostre vite dovevamo sacrificare sempre di più le nostre libertà. Tali argomenti sono stati sempre sottolineati dalla garanzia che tali misure sarebbero state provvisorie. Ovviamente vent’anni dopo i fatti le misure di sicurezza messe in atto sono ancora in piedi (si pensi alla sicurezza degli aeroporti, ai passaporti biometrici, allo spionaggio digitale dei cittadini da parte dei governi, alla raccolta di dati… solo per citare gli esempi più ovvi) La minaccia del terrorismo ha reso ciascuno di noi un potenziale terrorista e quindi una potenziale minaccia che deve essere sorvegliata. Con il virus, un terrorista invisibile che circola nell’aria, siamo diventati tutti potenziali vettori ed untori. Colpisce nel segno il filosofo italiano Giorgio Agamben quando afferma che “non è che i cittadini di tutto l’Occidente abbiano diritto alla sicurezza sanitaria, ora sono legalmente obbligati ad essere sani. Questa, in poche parole, è l’essenza della biosicurezza“. È intrinsecamente legato alla logica di questo pensiero che la pandemia avrà conseguenze che trasformeranno l’intera società in un’area monitorata, in una quarantena permanente, dove tutti saranno trattati come potenziali portatori del virus.
Il terzo articolo della Costituzione italiana (che ha ispirato la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite) afferma: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Il pieno sviluppo della persona umana è precisamente ciò che è in gioco nella nostra situazione attuale. Come possiamo aspirare alla piena espressione degli “angeli migliori della nostra natura” (per citare Abraham Lincoln) se uscire dalle nostre case è diventato un crimine? Come possiamo esercitare l’empatia e l’amore, il nostro senso morale e la nostra ragione? Come possiamo placare la nostra sete di conoscenza, crescita emotiva e relazioni umane? Come possiamo ancora chiamarci esseri umani se ciò che ci rende tali (l’essere) è incatenato alle catene della mera sopravvivenza?
Facendo eco a questi principi, mentre sedeva in una prigione a Birmingham, Alabama nel 1963, il reverendo Martin Luther King Jr. descrisse in modo eloquente la nostra situazione quando scrisse: “Una legge giusta è un codice creato dall’uomo che coincide con la legge morale o la legge di Dio. Una legge ingiusta è un codice che non è in armonia con la legge morale. Qualsiasi legge che eleva la personalità umana è giusta. Qualsiasi legge che degrada la personalità umana è ingiusta… Uno ha non solo la responsabilità legale ma anche morale di obbedire alla giusta legge. Al contrario, si ha la responsabilità morale di disobbedire a leggi ingiuste”.
CROCEVIA
Stiamo vivendo tempi molto pericolosi, signore e signori, ed il vero pericolo non mi sembra il virus in sé, ma la nostra risposta sociale, politica e culturale ad esso. Sembriamo irremovibili nel voler aderire all’idea che la nostra nuda vita, rimossa dalla sua forma, sia il bene supremo a cui devono inchinarsi tutti gli altri beni. Questa è un’idea molto pericolosa ed un pensiero da schiavo.
I nostri nonni, quando la morte li guardava negli occhi, avevano una comprensione diversa. Quando la macchina da guerra tedesca ha investito l’Europa distruggendo, uccidendo e bruciando tutto ciò che gli era caro, hanno preso la coraggiosa scelta di reagire. Senza troppe esitazioni decisero che la loro libertà, il fuoco sacro che arde dentro gli esseri umani giusti, era più importante di ogni altra cosa, compresa la loro vita. Hanno capito che senza libertà, totale, non negoziabile, autodeterminante, tutte le espressioni dell’esistenza umana sono prive di qualsiasi significato profondo. E così hanno combattuto e sono morti a milioni per conquistare quella libertà che, noi oggi, stiamo compromettendo con noncuranza. Se, come noi stiamo facendo, avessero messo la loro nuda vita piuttosto che la libertà come bene supremo, oggi parleremmo tutti tedesco e la visione di Hitler sarebbe una realtà.
Ma noi? Cosa diremo ai nostri nipoti quando ci chiederanno di questi tempi? Diremo loro, con orgoglio, che per paura di infettarci con un virus con un tasso di letalità inferiore all’1% abbiamo sacrificato tutti gli altri valori? Che abbiamo buttato via tutte le libertà e le conquiste per le quali i nostri nonni hanno dato la vita? Ci gonfieremo d’orgoglio nel dire loro che, per paura, abbiamo cancellato i pilastri della nostra civiltà?
Comprensibili ragioni di sicurezza sanitaria ci stanno imponendo l’accettazione di una limitazione indeterminata delle libertà personali, senza dibattito e senza che questo venga messo in discussione. In tal modo corriamo un serio rischio di dipendenza dalla schiavitù, con la combinazione di un sistema di informazione unidirezionale quasi totalitario. È chiaro che in una situazione del genere i popoli o si adattano o vanno verso gli estremi (espressione di rabbia dovuta anche alla percezione della violenza subita).
Tale percezione d’ingiustizia è in crescita esponenziale perché è sempre più evidente che il virus non si combatte rinchiudendo i cittadini, ma rafforzando la salute pubblica (distrutta dalle nefaste politiche del liberalismo). Non si combatte nascondendosi nelle nostre case, ma proteggendo l’1% tra noi che è più fragile. Non si combatte creando milioni di nuovi poveri ma potenziando le tempestive cure mediche sul territorio. Non si combatte mettendo in carica scienziati ed esperti crivellati da conflitti di interessi ma attuando linee guida chiare seguendo la conoscenza dei medici che hanno curato con successo migliaia di pazienti (e tali dottori sono tanti). Non si combatte con minore democrazia ma con più democrazia. Non si combatte con la censura ma con la discussione. Ma soprattutto non si combatte rinunciando a vivere in nome della sopravvivenza, bensì scatenando la parte migliore che risiede in tutti noi… lasciando spiccare il volo agli angeli migliori della nostra natura.
È ogni giorno più chiaro che siamo davanti ad un bivio e l’unica domanda che tutti dovrebbero porsi è da che parte della storia vogliono stare! Chi di voi ha paura del virus può chiudersi a chiave in casa, indossare due mascherine e fare la doccia con gel disinfettante. Vi capiamo e, se potremo, vi aiuteremo! Ma non pretendete egoisticamente lo stesso per tutti. Se passare anni della vostra vita sdraiati su un divano a guardare stupidi programmi TV su Netflix con Deliveroo che vi porta cibo semi fresco alla vostra porta vi sembra una vita degna di essere vissuta, fate pure! Ma non chiedete con arroganza a tutti di fare lo stesso. Se pensate che la libertà sia sopravvalutata ed un’accettabile moneta di scambio per la sicurezza sanitaria, sentitevi liberi di incatenarvi a qualunque padrone vi voglia! Basta non esortare istericamente che tutti siano ridotti in schiavitù! Se desiderate vivere in un mondo virtuale di realtà digitali, attaccate la spina! Ma non aspettatevi infantilmente che noi si smetta di passeggiare attraverso i mistici boschi delle nostre vite. Alcuni di noi non vogliono rinunciare a vivere per paura di morire.
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