
Il capitalismo globalista neoliberale é animato da due tendenze diametralmente opposte nella prassi eppure assolutamente convergenti nello scopo. Queste propensioni sono di tipo sia politico che economico. La prima é una tendenza separativa mentre la seconda é una propensione all’omologazione. La tendenza separativa del capitalismo neoliberista é una manovra politica il cui scopo é il tentativo di praticare il famoso adagio romano “divide et impera” mentre la propensione all’omologazione culturale delle masse é una condizione sine qua non di unificazione del mercato, dei consumatori e dei prodotti. Queste due aspirazioni, malgrado la loro apparente divergenza, altro non sono che le due principali metodologie rivolte al mantenimento, rafforzamento e sviluppo del sistema.
TENDENZA SEPARATIVA
Il sistema economico/politico capitalista, come Marx ha spiegato molto meglio di me, è naturalmente, strutturalmente, divisivo. Esso infatti tende a creare, rinforzare e favorire la divisione societaria in classi di “vincitori e perdenti”, sfruttati e sfruttatori. La deriva globalista e neoliberale del capitalismo odierno ha, non solo evidenziato questa tendenza innata del sistema, ma l’ha accentuata. Ai giorni nostri la spropositata differenza tra ricchi e poveri è cresciuta a dismisura e tende ad accelerare. A titolo di esempio, riporto il seguente dato: durante l’anno 2018 un lavoratore medio di Amazon ha guadagnato 30.000 dollari; più o meno lo stesso ammontare che Jeff Bezos, CEO della compagnia, guadagnava ogni 10 secondi.
Sebbene il capitalismo globalista neoliberale abbia come unico scopo il maggior profitto per il minor numero di persone possibile, questa discrepanza tra il potere economico dei “padroni del vapore” e la stragrande maggioranza del popolo è diventata un grave problema. Ovviamente è un problema per il popolo lavoratore, che vede il frutto del suo lavoro travasato e concentrato nelle mani di un’élite transnazionale, ma è diventata un problema anche per l’élite stessa che, responsabile dell’ingiustizia sociale (o furto legalizzato) in atto, corre il rischio di farsi travolgere da un sempre più supponibile “risveglio delle coscienze”.
Una delle strategie adottate dai “padroni del mondo” per rispondere a questo problema, e sovvertire ed incanalare la crescente rabbia del popolo, è quella, come menzionato prima, dell’utilizzo del vecchio stratagemma romano del “dividi e comanda”. Il pericolo più grande per lo status quo, infatti, è un condensamento partitico del popolo. Una massiccia organizzazione di intenti ed un coordinamento politico di essi segnerebbe la fine dell’attuale sistema nel giro di poco tempo. È quindi di fondamentale importanza, dal punto di vista delle elite, di assicurare che ciò non avvenga. Ogni forma di accomunamento di obiettivi, di aggregazione comunitaria e di compattezza legislativa deve essere (e di fatto lo è) bloccata, ostracizzata e scoraggiata.
Il sistema capitalistico, infatti, ha come primo nemico il patto sociale inteso come difesa degli interessi dei molti e come tentativo coesivo della confraternita umana. L’apparato economico e politico dominante desidera quindi individui svuotati di ogni appartenenza collettiva e perciò individui politicamente solitari ed incapaci di rifiutare tutto quello che il capitale vorrà imporgli.
Questa tendenza politicamente separativa risulta evidente in molti aspetti della vita sociale e lavorativa attuale. Dal depotenziamento sistematico dei sindacati, al depauperamento del lavoro comunitario in favore, per esempio, del telelavoro o della gig economy, che sfrutta il lavoratore nella sua condizione di atomo separato dalla comunità lavorativa (e per di più privo di qualsiasi forma di diritto), sono molti gli esempi che si potrebbero fare di tale corrente. Ma nessun esempio è più evidente ed oppressivo del perpetuo sforzo separativo identitario (individuale ed individualista).
Tale sforzo – culturale, mediatico e propagandistico – si pone come obbiettivo di separare la massa, il popolo, che se unito rappresenterebbe un potenziale rivoluzionario, in piccoli nuclei rinchiusi su se stessi, non comunicanti, antagonisti e quindi in constante lotta tra loro. Questa viene spesso giustamente definita come “lotta tra poveri”.
Il popolo viene quindi incitato dal potere, principalmente tramite la propaganda, a formare fazioni in contrasto tra loro. Queste fazioni, o dicotomie non dialoganti, vengono continuamente ed in alternanza fomentate dalla classe dirigente tramite la leva dell’identità individuale, particolare ed esclusiva. Vediamo quindi salire sul ring del conflitto sociale bianchi contro neri, nativi contro migranti, uomini contro donne, Cristiani contro Mussulmani, eterosessuali contro omosessuali, sì-vax contro no-vax e via discorrendo. Questi conflitti, seppure spontaneamente esistenti, vengono amplificati di continuo sia dalla grancassa mediatica sia dal sistema stesso che, producendo masse di diseredati costretti a competere tra loro, crea i presupposti del conflitto. Lo scopo di tale operazione è quello di spingere il popolo diviso a combattere contro se stesso in maniera orizzontale ed a distrarlo dalla vera fonte del suo malcontento (il sistema capitalistico elitario) che richiederebbe invece una lotta verticale contro i guardiani della condizione sociale stabilita.
In altre parole l’attitudine separativa del sistema capitalistico altro non è che un’arma di distrazione di massa sguainata in difesa della conservazione acritica e statica del sistema stesso. Il cittadino viene portato a credere che la colpa della sua condizione sia, per esempio, del migrante e che se dovesse sparire esso questo cambierebbe la sua situazione sociale ed economica. Al contempo si spinge il migrante a credere che non è ben voluto dalla popolazione nativa a causa del colore della sua pelle e non perché, probabilmente senza saperlo, è arrivato in un paese il cui tessuto sociale ed economico è allo stremo e la sua presenza è quindi vista come di troppo. Queste narrative contrapposte e specificamente mirate, permettono al sistema ed ai suoi difensori di trasformare due potenziali alleati in acerrimi nemici.
Questo è un vecchio trucco ma è molto efficiente. Un po come dei mestieranti borsaioli, i difensori del potere costituito distraggono il cittadino attirando la sua attenzione con la mano sinistra e rubandogli il portafogli con la destra.
TENDENZA OMOLOGANTE
La seconda propensione del capitalismo globalista è diametralmente opposta a quella appena descritta. Il sistema economico globalista, infatti, si forma su quella che il filosofo Diego Fusaro chiama “l’inclusione neutralizzante” e cioè una necessaria, dal punto di vista del sistema, neutralizzazione delle specificità culturali regionali. Ciò ha una funzione prettamente economica.
L’incarico economico di tale tendenza è quello di standardizzare il modello di produzione ed il modo di consumo delle merci. Per sintetizzare tale compito possiamo citare la famosa esclamazione di Henry Ford che, parlando della scelta che i suoi clienti avevano sul colore delle sue automobili, disse: “Possono scegliere il colore che vogliono. Purché sia nera!”. Ecco, il capitalismo globale, similmente, esclama: “Potete scegliere il prodotto che preferite. A patto che sia il nostro!”
Lo scopo del capitalismo globalizzato è quello di vendere il maggior numero di prodotti al maggior numero di consumatori possibili. Per conseguire nel suo intento il sistema necessita di consumatori neutri, indistinti, narcisisti ed anzitutto omologati. Ciò permette al mercante di espandere esponenzialmente il mercato e quindi il numero di consumatori raggiungibili dallo stesso prodotto. In altre parole, per raggiungere il massimo ricavo possibile, il sistema capitalista globalizzato desidera che tutto sia medesimo. Medesimo deve essere il prodotto cosi come medesimo deve essere il consumatore.
La tendenza omologante del mercato è particolarmente visibile nel campo vestiario. Le nuove frontiere della moda si spingono sempre di più verso una proposta assottigliata di differenze. Basti pensare ai capi unisex o al prêt-à-porter omogeneo sia che sia venduto in Italia sia che sia venduto in Cina. L’esempio forse più lampante di tale omologazione lo troviamo nelle famose pubblicità “United Colors” del marchio Benetton dove bambini di tutte le razze, e quindi rappresentanti di diverse culture, posano insieme vestiti tutti nello stesso modo. Insomma “United Colors” sì, ma sotto il segno del verde dollaro.
Il più grande ostacolo a questo relativismo consumistico rimane quindi l’identità regionale e culturale sotto l’auge della specifica tradizione popolare. Tale tradizione, derivante dalla particolare storia di un dato popolo, riflette la sua peculiarità e quindi, di conseguenza, la sua identità. Tale tipicità regionale é ciò che il capitalismo globale rifiuta e tenta di distruggere e livellare con ogni mezzo, sia esso propagandistico, culturale, politico o economico. Non deve quindi stupire che le due visioni politiche prevalenti si biforchino tra sovranismo e globalismo e che quelle economiche tra produzione e consumo globalizzato e produzione e consumo a chilometro zero.
Insomma la “open society” capitalista e globalista altro non vuole che una società svuotata dei suoi valori culturali specifici, una società che quindi, priva di tradizione, sia plasmabile a piacimento dal mercato e nella quale poter inserire prodotti fabbricati in massa e consumati dalla moltitudine. Tale sistema economico brama a neutralizzare ogni aspirazione comunitaria che non sia quella dello scambio commerciale, e cioè il mercato. Lo Stato, organo fondamentale per l’espressione democratica della polis, viene quindi estorto della sua funzione congenita ed obbligato a governare PER il mercato invece di governare IL mercato.
Va brevemente ricordato che tutte le dittature tendono all’omologazione perché ciò distrugge l’individualità e di conseguenza depotenzia l’attitudine e l’abitudine al dissenso. L’esempio concreto è l’uniforme imposta dal dittatore; la quale da una parte accomuna chi l’indossa e dall’altra uccide ogni forma di originalità. La peculiarità della dittatura finanziaria odierna è che contemporaneamente promuove l’uniformità dei gusti ed incoraggia una finta scelta (il “Purché sia nera!” fordiano che aggiornato diventa “Purché siano jeans!”). Per riassumere si potrebbe dire che senza radici culturali il cittadino perde la sua identità regionale specifica, senza identità egli perde il senso di appartenenza ad una comunità e senza consapevolezza comunitaria perde la sua capacità di resistere. Il che è esattamente ciò che il sistema vuole.
Seguendo questo pensiero una domanda sorge spontanea: se lo scopo del sistema è quello di omologare le eterogenee culture, a quale cultura dominante devono esse adeguarsi? Quale é l’archetipo originale da clonare? La risposta è ovvia e scontata. Il modello culturale cannibale ed oppressore è quello dell’ “American way of life”. Un modello Nord americano basato sul consumo sfrenato e di bassa qualità, sull’individualismo estremo, sulla competizione selvaggia e promotore di una cultura infantile ed infantilizzante. Insomma il modello “fast-food and quick money” (cibo veloce e soldi rapidi).
IDENTITA E FRONTIERE
La più grande fallacia del pensiero moderno consiste nel confondere il giusto e necessario anelito di eguaglianza con l’erronea e distruttiva pretesa d’identicità. Mentre l’eguaglianza è una sacrosanta rivendicazione politica edificata sulla giustizia, sia sociale che economica, l’identicità é un tentativo prepotente e tirannico di livellamento del diverso. Tale livellamento presume, come abbiamo visto in precedenza, un’accostamento collettivo ad un modello base (nel nostro caso quello Nord Americano) dal quale clonare le molteplice manifestazioni dell’essere. Come un virus, l’identicità si impadronisce dell’altro per renderlo medesimo, distruggendo cosi l’identità individuale e collettiva dei popoli.
L’identità, infatti, può esistere solo nella differenza. L’uno è uno perché non è l’altro. Io sono io perché non sono te. È precisamente nella mediazione delle differenze che l’individuo comprende, nutre ed arricchisce la propria specificità. Il dialogo, aperto e rispettoso, quindi, diventa un mezzo necessario per far si che due realtà distinte possano comunicare. Senza differenza il dialogo diventa un monologo ripetitivo ed avvilente, assassino della fantasia, dell’educazione e della relazione. Al contrario il vero dialogo costringe le parti al tentativo di comprensione dell’altro senza perciò abbandonare la propria prospettiva. Cosi facendo il vero dialogo arricchisce ed abbellisce la propria identità e quella dell’altro tramite il confronto.
Tale peculiarità dell’esperienza umana è maggiormente percepibile nell’atto di viaggiare. Durante il viaggio il cittadino entra in contatto con una realtà sociale e culturale diversa dalla sua. Da essa, in primo luogo, osserva ed impara visioni, riti e approcci diversi all’avventura umana ed in secondo luogo li confronta con i propri. L’esplorazione del diverso accresce la sua saggezza ed il confronto con essa accresce la propria consapevolezza identitaria. Chiunque viaggi, una volta ritornato a casa, porta con se non solo nuove conoscenze ed il profumo di mondi lontani, ma anche una nuova sensibilità nell’osservare i propri giardini.
È un’evidenza troppo spesso dimenticata che ogni cultura, per quanto diversa, altro non è che una manifestazione della razza umana. L’umanità, in sé unitaria, si distingue nella sua pluralità, complessità e varietà. L’identità culturale regionale, infatti, altro non è che un’identità narrativa derivante da specifiche storie, tradizioni e memorie.
Cosi come tra due esseri umani, a livello micro, l’io identitario nasce dalla distinzione dall’altro, a livello macro la cultura nazionale si distingue geograficamente attraverso il confine. Il confine nazionale, la frontiera, altro non è che delineamento dei limiti di una realtà al di là dei quali esiste l’altro. Tale limite definisce l’identità storica, culturale e tradizionale di un popolo ma anche, e forse sopratutto, ne determina la sovranità, e cioè la possibilità di governare il proprio destino.
In tempi di guerra antichi l’aggressore vittorioso, come prima mossa, abbatteva le mura della città conquistata. L’abbattimento delle mura era una conquista per l’aggressore ma una perdita per l’aggredito. Durante la guerra del Peloponneso quando Sparta conquista Atene sul campo di battaglia ordina, secondo i patti di resa stipulati, di abbattere le sue mura. Ciò non avviene per unire Sparta ed Atene in fratellanza bensì per lasciare Atene nuda, per così dire, indifesa, vulnerabile al comando di Sparta. Non dovrebbe quindi stupire che Atene non avrebbe mai più recuperato la sua antica prosperità e che il crollo delle sue mura sigli la fine del secolo d’oro della civiltà ellenica. L’abbattimento del confine è sempre un’atto di colonizzazione da parte dell’esercito o del pensiero o del sistema economico dominante il quale, come abbiamo visto ripetutamente, desidera imporre la propria supervisione e di conseguenza dominare l’altro. Se ne deduce che il famoso discorso di Pericle agli Ateniesi “Qui ad Atene noi facciamo così”, nel quale il famoso politico descrive le caratteristiche della democrazia ateniese, una volta cadute le mura della città, non sussiste. Senza le mura che delineano Atene non esiste più un “qui” ne un “noi”. E senza di essi è impossibile definire il “facciamo cosi” distinto da un’altro fare.
Per tornare ai nostri tempi, è chiaro che i principi di nazione, sovranità, tradizione ed identità culturale sono sotto attacco da un sistema economico antropofago che intende distruggere il diverso per imporre il suo medesimo. In questo contesto pare ovvio che l’attuale demonizzazione delle frontiere nazionali non è altro che un trucco del capitalismo il quale desidera colonizzare le menti ed i corpi del mondo in nome del profitto. Le campagne politiche e mediatiche concepite per esecrare il principio stesso di nazione come principio intrinsecamente razzista, guerrafondaio e isolazionista servono al capitale transnazionale per distruggere ed abolire tutti i sistemi di difesa giuridici, politici ed economici a disposizione dei vari popoli. La società “no border” globalista e capitalista desidera veder trionfare il medesimo su scala globale: una lingua, un pensiero, una legge, un solo modo di produrre e consumare… insomma un’unico modo di vivere dettato e controllato da un’élite sempre più ristretta.
Possiamo quindi concludere che esistono due tipi di universalismo: il primo percepisce come unico modo di unione il livellamento e l’indistinzióne delle parti il secondo, al contrario, celebra e difende le differenze come unico atteggiamento sano e fraterno di stare al mondo.
NEOCOLONIALISMO
In un’episodio del capolavoro di Fëdor Dostoevskij “I fratelli Karamazov” una nobildonna tanto pia quanto ricca rende visita allo starec (mistico cristiano) Zosima nel suo monastero. Mossa da una profonda crisi di coscienza gli confessa che: “Io amo l’umanità, ma con mia grande sorpresa, quanto più amo l’umanità in generale, tanto meno mi ispirano le persone in particolare.” L’episodio descritto dal maestro russo descrive perfettamente il dilemma nel quale le società odierne si trovano.
Spinti da un’onesto desiderio di convivenza pacifica e fraterna, i popoli, guidati dalla propaganda globalista, credono che le frontiere siano il problema dimenticando che la vera uguaglianza e la vera fratellanza non è l’eliminazione delle differenze bensì è sviluppo di esse nel rispetto della loro identità specifica e dunque della loro alterità. La vera uguaglianza, insomma, è l’antitesi dell’omologazione. O come esclama uno dei personaggi dell’Idiota, sempre di Dostoevskij: “Nell’amore astratto per l’umanità quasi sempre si finisce per amare solo se stessi.”
Ed è per questo strano gioco dell’animo umano che la “no border open society” altro non è che la forma più becera di nazionalismo. Il vero nazionalismo, infatti, è la riduzione delle differenze culturali ad uno; il desiderio, appunto, d’imporre una visione (la “American way of life”) su tutte le altre e di omologare tutte le espressioni umane. Questo si chiama colonialismo.
Vi lascio con degli estratti del “Discorso agli ateniesi” di Pericle, pronunciato ormai 2500 anni fa.
La nostra forma di governo non entra in rivalità con le istituzioni degli altri. Il nostro governo non copia quello dei nostri vicini, ma è un esempio per loro. Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così
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